giovedì 12 giugno 2008

Un anno e più di assenza. Eppure quante cose sarebbero da raccontare, annotare, puntualizzare. La scrittura serve per chiarire il pensiero. Sarebbe bello poter inventare un qualche marchingenio che legga i nostri pensieri notturni, quando il cervello riposa, in quel assurdo istante tra la veglia e il sonno. Di solito mi vengono idee stupende in quel frangente. Poi l'indomani, è probabile, dimentico tutto!
I luoghi da visitare: affiora sempre la voglia di frequentare quei luoghi legati ai propri studi, quasi che ti protegga sapere di essere in un ambiente comunque conosciuto. Come a Bergamo, giunti dall'autostrada, il sereno profilo del Canto Alto rasserena nel suo abbraccio attorno alla città adagiata. Il cuore dell'Europa, da cui al momento non si avverte necessità di allontanarsi, le nazioni più prossime all'Italia: Spagna, Francia, Austria, bassa Germania. Poi un domani si vorrebbe arrivare a curiosare fin su al nord, entrare nelle ampie distese disabitate dove si isolò negli ultimi decenni di vita l'amato Sibelius. Poter comprendere finalmente le ragioni native, caratteristiche, lo vogliano o meno i critici, della produzione artistica di chi si è dedicato, nella propria vita, alla cultura.
Ragione nativa che si respira nei luoghi verdiani, quell'ampio legato della sua frase melodica unica e impensabile sorta altrove. La libreria esposta ai visitatori, contenente un riassunto del meglio allora pubblicato, così profondo da poter essere usato per quelle classifiche ad uso dei quotidiani americani: i dieci libri da portare nello spazio o in altri lidi. Shakespeare, Schiller, Dante, Manzoni. Cos'altro per la sensibilità artistica verdiana? Quel filo rosso di umano, estremamente umano che unisce i quattro grandi scrittori al musicista bussetano. Tra i pochi che han saputo gettare l'occhio nel profondo tormento dell'animo e da li sollevarsi al divino senza darlo a vedere. Accanto le partiture di Mozart, Haydn e Beethoven, bastevoli per una vita.
Togliere Verdi dalla piana distesa padana è come sradicare Mahler dalla Boemia o Shostakovich dall'Urss. Tanto la loro terra, il periodo storico, la propria esistenza necessitarono anche di quel diverso orizzonte. Sarebbe interessante scoprire, tra cento anni, se il tortuoso sinfonismo mahleriano avrà ancora così tanta presa. E al contempo per Shostakovich. Mentre Verdi, forse ancor più alto, resiste senza difetto.
Occorre, per scrivere, essere dentro lo scorrere della vita quotidiana. E saperne poi astrarre per aprirsi ad un respiro più alto da abbracciare tutto quanto possa essere l'interesse umano.

lunedì 4 giugno 2007

Leggo, con sempre maggior interesse, i romanzi di Joseph Roth. Vissuto nell'epoca definita Finis Austriae, non si avvale solo del languore decadente di una società al tramonto, più forte di lui in questo è Hofmannsthal, ma accenta con crudezza il periodo della Repubblica di Weimar, feroce, dilaniato, così ben descritto anche in Canetti (al momento della dipartita di tutta la famiglia verso Francoforte): il cambio che oscillava di giorno in giorno, la povertà dilagante, i cortei, gli scioperi, le vessazioni e la voglia di riscatto. Tutto mescolato alla rassegnazione dei reduci, degli sfiniti, di quanti han smesso di porsi domande e di voler continuare, reagire. Allora qui scatta il lato decadente anche in Roth. Quel senso di sfinimento, di umanità gettata alle ortiche. Per poi risvegliarsi, in mezzo ai cortei, dopo un lungo letargo, con più forte il desiderio di rinascita e di vita onesta e sana per tutti. Onestà nel vivere significa per gli umili di Roth poter godere del giusto che la vita dovrebbe riservare. Come vengono annullati i tentativi di quanti esigono affermarsi a discapito dell'umanità, come finisce tutto in fumo, bruciato o azzerato da un improvviso rovescio di fortuna. Roth è dalla parte dell'umile e di chi ha raschiato il fondo nella sua vita.

lunedì 28 maggio 2007

Oggi piove, sabato è passato il Giro da Bergamo tra squarci di sole e minacciosi accumuli nuvolosi. Impazzano le previsioni per l'estate, calda, caldissima, come il famigerato 2003, mite, temperata...annoto qui, al fine di ricordarmelo fra qualche mese, il meteo di questo periodo: siamo passati in breve dal caldo sui trenta gradi a milano (venerdì) al clima autunnale di oggi. I prati e i campi sono già in versione tardo estiva. Il secco dilaga allegramente. Inutile chiedersi cos succederà. Ipotizzo una salita al Monte Bianco mettendo i ramponi forse solo alla Capanna Vallot. Chissà quando ci si salirà come saranno le condizioni. In campo alpinistico si rumoreggia come in tutti gli altri aspetti della vita societaria, chi viene additato a Maitre à penser sguazza nelle pubblicità scalando fantomatiche pareti, travolto da improbabili slavine e scoprendo fonti purissime... A Bergamo l'anziano, se lo è anziano, Bonatti incontra, ed è una ferita forse sanata, il presidente del Cai locale (Valoti Paolo). Non si dimentica degli affronti subiti ormai 50 anni fa, ma abbraccia i suoi concittadini orgogliosi di seguire una ormai antica tradizione alpina. C'è da dire che non hanno avuto, le Orobie, il successo alpinistico delle altre zone: quando scorazzavano gli inglesi per le valli aostane e piemontesi (nonchè trentine e altoatesine), la zona lombarda non era in gran considerazione, se non per le maggiori cime valtellinesi. E' un po' quanto accaduto alle altrettanto selvagge montagne della Carnia e del Tarvisiano. Lasciate a se, amate da locali cultori e affascinati romantici (un nome per tutti: Kugy). Ora si scopre in orobia la natura lasciata libera e serena, accanto alle località di maggior sfruttamento turistico. E' innegabile: dove c'è l'uomo cittadino che investe la natura perde il suo fascino e avanza il cemento. Altrimenti queste valli sarebbero rimaste come le vicine: selvagge, deserte e disabitate. Intuile fasciarsi il capo, lo sci ha portato benefici, ora sta alla discrezione dell'uomo di non esagerare nel costruire e ingigantire comprensori dove si sa bene è inutile investire. E' questione di buon senso. Accanto è bello scoprire valli lasciate come "un tempo" e perdersi nel camminare tra queste. Il bello del girar per monti è che siamo noi a scegliere dove andare e cosa vedere. Nessuno impone alcunchè. E il godimento di panorami dolci, ampi, silenziosi è il maggior premio per una vita altrimenti costretta nei canoni della frenesia quotidiana.

mercoledì 16 maggio 2007

Verismo slavo


Ieri sera per l'ultima replica scaligera. L'opera, di cui non avevo mai ascoltato una nota, mi è persa una novella di Verga trasportata in terra morava. Con tutto il suo corollario di superstizione mistico religioso morale unito a leggi ferree dai cui non si può prescindere, di cui forse Ivo Andric nel suo Ponte sulla Drina ha dato l'espressione più chiara. Il rispetto assoluto e totale per personaggi forti, duri, a cui occorre esclusivamente sottomettersi serpeggia per tutta l'opera. Opera di donne, in cui gli uomini fanno una figura tra il meschino e il babbione. Opera sull'educazione, sulla famiglia, sui rapporti interni, intimi, dello stretto nucleo, segreto tra le mura. Il tutto sorretto dalla musica più strana che mi sia capitato di ascoltare in un'opera. Voce e orchestra si fondono con piani diversi. Orchestra coloratissima, peraltro, dove la tavolozza timbrica sprigiona un senso di arcaica natura, il ciclico ritmo della vita "contadina", l'ineluttabile fato, il color locale, stavolta non sparso per onor di folklore, bensì come necessario, indistricabile dal soggetto. Per cui anche il finale, malinconico, amaro, tristemente rappacificante, si tinge di suoni crepuscolari e popolari, quasi a sentir odor di fieno nell'aria e il ruotare della pala del mulino. Sui cantanti direttore coro e orchestra mi allineo con quanto letto finora: Silja con problemi vari sulla zona acuta e spesso non udibile nel registro grave, Magee molto brava, sforzato ma calzante Dvrosky e con ottimi risultati tutti gli altri. Bene coro e orchestra, violino solista impegnato qua e là in dolcissimi accompagnamenti al canto (bravissmo e dal suono brunito), molto impegnati gli ottoni, splendido l'uso che ne fa Janacek, e bravo il direttore pur senza forse quello scavo maggiore nella timbrica e nella tensione drammatica che ci si potrebbe aspettare. Mi pare che abbia più spinto sul tono elegiaco - malinconico - ineluttabile invece che entrare direttamente nella vicenda sforzando le dinamiche. La regia, sobria, attenta a descrivere i moti dell'animo senza inutili sprechi sia di movimenti che di scene. Buon successo di pubblico con varie chiamate e applausi festanti al termine dello spettacolo. Teatro discretamente pieno e numerosi stranieri estimatori del vino italico in galleria.

venerdì 4 maggio 2007

Melodie d'infanzia


Sarebbe bello riuscire a descrivere quali emozioni l'ascolto musicale dia. Sin da bambino le note, in quelle particolari successioni, pareva mi trasportassero, senza nemmeno osar oppore resistenza, in un racconto senza successione di stati. Ascoltavo e mi pareva fosse una voce lontana, anziana, saggia che parlasse. Molte musiche mi lasciavano una impressione debordante, come se un immenso racconto, un'epopea fosse terminata. Così l'ascolto di una sinfonia, l'ascolto di una sonata, l'ascolto di un'opera. Nell'opera, quanto più mi colpiva erano gli scontri, scontri di personaggi, scontri titanici di voci, scontri destinati a risolversi nell'amore o nell'odio. I duetti, le grandi scene dove i personaggi mettevano a nudo i loro stati d'animo. Più delle scene corali, più delle arie singole era nei duetti, nei pezzi d'insieme che mi sentivo trasportato sin nel cuore dell'opera e nella mente del compositore. Poi crescendo queste sensazioni pensavo si sarebbero affievolite. Invece ciò non avviene, le sinfonie, i quartetti, le sonate, i timbri (organo, legni, fiati, percussioni, tastiere) mi parlano ancora come singole voci, come un lungo immenso racconto, una fiaba ripetuta più volte. Si dipana alla mente la partitura, si apre chiara ed evidente la successione di note. E torna, sempre, con serafica compostezza, il fascino di quel dialogo nascosto, intimo e profondo, che pare risalga a tempi e spazi fuoriusciti dal nostro vivere terreno.

lunedì 16 aprile 2007

Riflessioni classiche

C'è un poeta veneto che fa di tutto per non essere famoso, ma che distilla versi da ormai svariati lustri, con inesauribile lucidità. Pare abbia una cultura non solo classica, bensì aperta alla scienza. Una cultura che può permettere di ampliare lo sguardo su scenari ben più vasti delle semplici questioni poetiche. E' un poeta ancora immerso nell'oggi, come affacciato ad una finestra, però. La finestra di Pieve di Soligo, la finestra della quiete naturale in contrasto al caos delle grosse metropoli, da cui si può con maggior serenità utilizzare il cervello senza il circostante frastuono. Ha scritto di tutto e con forme le più disparate. Si interroga e si fa interprete acuto e distanziato di quanto accade.
Leggendo le Odi di Orazio ci si accorge di una cifra stilistica fondamentale, la necessità di essere immersi nella storia del proprio paese. Orazio che cerca di distanziarsi dalla logica imperiale, celebrandola di riflesso, in chiave "minore", Orazio che si allontana dal mondo attivo per godere degli amori e del vino, ricade, ogni istante, nel ricordo delle gesta eroiche, delle battaglie vincenti, dei fasti e delle sconfitte. Per allontanarsene come elastico che ritorna poi su se stesso. E rimane attuale in ogni suo carme
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venerdì 6 aprile 2007

Panorami orobici


Ci si affaccia alla primavera, dopo un inverno particolare. Per assenza di neve, per mancanza di freddo... A metà marzo, in cima al Resegone, la vista spaziava sulle cime della Valtellina, sino alla Svizzera, al Monte Rosa, Cervino e alle nebbie padane. E per i pascoli sottostanti la dolcezza tipica dell'ambiente lombardo si spandeva lieve. Silenzio della Val Imagna, dal cielo lattiginoso, ricca di boschi e prati. Si immagina dalle architetture un progresso lentissimo e impercettibile. Le insegne dei negozi rimaste a una trentina di anni fa. Viene in mente più di un passo scritto da Gavazzeni sulla sua valle originaria: la più selvaggia delle valli bergamasche. Il ricercare un Dio risiedente solo tra le gole, i prati, le cime e i ruscelli vallivi. Un Dio locale espressione della fede di cui si ha luce nelle chiese poste in posizioni rilevanti, a difesa del paese e della valle. E il Resegone, simbolo e figura amata nella Lombardia. Percorso dalle infinite creste su cui ormai più di un secolo di alpinisti e appassionati si sono arrampicati e ne hanno fatto sede stabile di escursioni. C'è chi, di Milano, conosce meglio queste creste che la propria città.